Intervista a Sabina Langer

Nonviolenza e pacifismo, generi e generazioni, educazione. Di tutto questo abbiamo parlato qualche settimana fa con Sabina Langer, insieme Giada Carrideo, Martina D’Agostino e Giada Taglietti che hanno fatto parte della redazione di 8pagine.com per tre mesi, grazie a un progetto di alternanza scuola-lavoro organizzato con il liceo Vittorini di Milano.
Sabina Langer,, laureata in filosofia politica e dottoranda in pedagogia, è un’attivista impegnata con diversi progetti nazionali e internazionali, in particolare in Bosnia Erzegovina, nella diffusione di una cultura nonviolenta.

Abbiamo letto dalla sua biografia che durante il suo soggiorno in Bosnia ha appreso le regole d’oro dell’ospitalità. Come mai si trovava lì e quali sono queste regole?

La prima volta che sono arrivata in Bosnia era il 1999, la guerra era finita da poco, e la città era ancora distrutta. Arrivammo dopo dodici ore di autobus, perché allora era l’unico modo per raggiungerla, e senza acqua, perchè dove ti fermavi non c’era niente. Arriviamo a Mostar e la gente del posto ci porta l’acqua: erano così contenti di vederci, di vedere persone – che poi erano anche bosniaci di ritorno per l’estate, non solo “stranieri”. Però loro, alla fermata dell’autobus, avevano le taniche di acqua, è stato molto bello. Quindi l’ospite è chi ti porta il mondo, in Bosnia.
La psichiatra con cui lavoro dal 2000 in vari progetti è una delle sfollate del primo turno di Srebrenica, la città che nel 1995 è stata teatro dell’ultimo genocidio dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1992 i serbi stringevano questa piccola cittadina, una enclave perchè è in una conca, una valle, e hanno permesso a donne e bambini di scappare e la psichiatra si è spostata con i profughi. Da subito, nel 1992, ha iniziato a lavorare sui traumi di guerra, già durante la guerra, perché non si poteva aspettare: la pace si costruisce giorno per giorno, prendendosi cura anche delle ferite di persone umiliate, violentate.
Quindi lei, scacciata da casa e impossibilitata a ritornarci, ha iniziato a prendersi cura delle persone che arrivavano, prevalentemente donne e bambini. Io ho avuto la fortuna di lavorare con lei fino a quando non sono diventata mamma. Facevo 4 o 5 viaggi in Bosnia all’anno e ho iniziato a sistematizzare le mie impressioni, le mie immagini.
A Sarajevo ero ancora una ragazzina e quindi era tutto nuovo; il mio lavoro era coordinato da una persona poco strutturata che mi forniva meno strumenti interpretativi, ma a Sarajevo vivevamo come volontarie a casa delle persone, anche per dar loro un minimo contributo economico, e lì loro erano pronti a dare qualsiasi cosa. Non c’era il “mio” e il “tuo”, ma anzi: “hai freddo? ti do da coprirti con il mio maglione”. Poi c’è l’usanza di lasciare le scarpe fuori da casa, un’usanza che accomuna tutti, e che esprime la doppia faccia dell’ospitalità: quando entri in casa mia togli le scarpe, quindi lasci fuori il mondo e porti te stesso; d’altra parte c’è anche il “sentiti a casa” al punto da poter stare con le ciabatte – fatte spesso a mano dalle mamme o dalle nonne. La casa diventa subito accogliente, anche perché, spesso, la sala di notte si trasforma in camera, quindi ci sono grandi divani dove ci si siede. Le donne macinavano caffè in chicchi, che poi veniva cotto e versato in bicchierini.
Anche il caffè è uno dei segni dello scambio bosniaco perché è un caffè che prevede tempi lunghi: la polvere deve sedimentarsi e non puoi bere il caffè e basta, devi sederti, aspettare, aspettare che diventi un po’ freddo… nel frattempo chiacchieri. È un tempo che in Bosnia c’è e si regala. A Milano vedersi per un caffè significa “prendiamoci dieci minuti”, invece lì ci vuole una lunga preparazione, almeno un’ora e mezza di tempo. Il tempo, quindi, e la condivisione.

Che importanza ha avuto per lei la conoscenza delle lingue come strumento di relazione con le persone, in particolare di culture diverse?

Le lingue sono un mezzo di apprendimento, perché grazie all’altra persona si può imparare sempre. Ho avuto la fortuna di apprendere le lingue piuttosto che studiarle, nel senso che sono bilingue dalla nascita: mio papà mi ha parlato sempre in tedesco e mia mamma in italiano; poi sono andata alla scuola tedesca dove, come voi studiate l’italiano, io studiavo il tedesco e l’italiano e anche l’inglese era trasmesso, non studiato, come il latino – persino il latino noi lo parlavamo, il nostro professore entrava e diceva “Salvete discipuli” e noi dovevamo rispondere “Salve magister” e lui continuava in latino, non parlava in tedesco. Quindi per noi le lingue non erano e non sono mai state materie di studio, ma il modo di comunicare, di interagire. La cosa importante era saper comunicare e poter usare le lingue. Avendo questa fortuna poi è stato sempre molto facile per me imparare le lingue; il francese e lo spagnolo sono arrivate da sole e il bosniaco ho provato a studiarlo, ma ha una grammatica slava e molto diversa da tutte le altre. Lo parlo facendo un po’ di errori, faccio riunioni in bosniaco. Non avendole studiate le lingue o le uso o le perdo, e quindi succede che in Bosnia gli interpreti mi servono per essere certa, trattando di argomenti delicati, di esprimere con le giuste misure le cose che voglio dire. Per cui le lingue servono per imparare insieme agli altri e sono anche un limite perché se non si è abituati a comunicare anche con le lingue, ma non solo, si rischia di essere chiusi all’altro; spesso mi è capitato, in particolare in Bosnia di avere, di interagire con persone o di portare con me persone dall’Italia che non avevano la predisposizione alle lingue quindi aspettavano proprio la traduzione, l’interprete, senza attivarsi con la curiosità di cercare, di capire, di vedere oppure aspettavano la spiegazione. Credo che le lingue siano appunto anche un vincolo, ma la curiosità, la possibilità di interagire, non passa solo attraverso le lingue; in ogni caso le lingue trasmettono anche delle strutture mentali, strutture logiche.

Le lingue formano inevitabilmente tra le persone un “ponte”. Questa parola torna nei suoi discorsi e anche quando si parla di Alexander Langer. Chi è stato per lei e come potrebbe raccontarcelo?

Alexander Langer era fratello del mio papà: era lui stesso un ponte, da quando era ragazzino, perché, insieme a mio padre e all’altro zio, sono cresciuti a Vipiteno, spostandosi poi a Bolzano.
La loro era una famiglia tirolese un po’ sui generis perché il nonno era austriaco, la nonna era la prima farmacista di Vipiteno – prima donna laureata in chimica – quindi erano diversi e soprattutto parlavano il tedesco “alto”, non il dialetto.
Hanno dovuto imparare a essere ponte tra la cultura a casa e la cultura in strada. Vipiteno Sterzing era un paese, non aveva le scuole medie e quindi loro hanno dovuto andare a Bolzano. Erano già stati all’asilo italiano perché la nonna aveva voluto che andassero alla scuola materna italiana, per questo da piccoli già parlavano in italiano. Ma alle scuole medie Alexander ha iniziato a farsi “ponte” tra i gruppi linguistici. Gestiva le riviste studentesche in italiano e in tedesco: non si poteva pubblicare in un’unica lingua in una città bilingue. Ognuno aveva il diritto di usare la lingua che preferiva; stava all’altro il “dovere” di capire la lingua.
Uno dei temi ricorrenti di Alexander è quello dei “gruppi misti”, situazioni in cui i vari individui sono portatori di differenza e insieme cercano di costruire un mondo diverso. Ponte, per Alexander, era anche, tornando al pacifismo di cui abbiamo già parlato, farsi tramite tra la società civile e il Parlamento europeo. Nel 1989 è stato eletto parlamentare, si è occupato di Balcani, di Albania, e poi con l’avvicinarsi del conflitto, che era evidente, ha iniziato a frequentare quei gruppi di pacifisti o di persone non violente nella zona e hanno costituito dal ‘92 – all’ inizio del conflitto -, quello che si chiama Verona forum per la riconciliazione e la pace nel territorio dell’ex Iugoslavia.
Era un gruppo misto molto grande: 200 uomini e donne di provenienza diversa dei paesi belligeranti e di professioni diverse, accomunate dal desiderio di trovare un’alternativa alla guerra. Alexander si è fatto ponte tra persone della società civile di quella che era la Jugoslavia: persone che prima erano tutte iugoslave si sono scoperte croate, serbe, bosniache, montenegrine. E spesso non potevano comunicare più tra di loro: non c’era il cellulare, le linee telefoniche non c’erano più, la posta non funzionava più, quindi Alexander Langer e il Parlamento europeo spesso facevano da ponti telefonici: si creavano riunioni grazie al fatto che al Parlamento europeo venivano chiamate più persone che potevano comunicare fra loro. E poi hanno fatto riunioni del Verona forum, quindi facevano uscire esponenti della società civile per dialogare insieme, cosa che non facevano i loro governanti. Dalle riunioni emergevano poi desideri, necessità, suggerimenti o soluzioni possibili e Alexander le portava al Parlamento europeo, quindi si faceva ponte tra questo gruppo misto, che era il Verona forum, e quell’altro gruppo misto istituzionale che era il Parlamento europeo.

Per chi vuole conoscere Alexander Langer

Abbiamo fatto un lavoro di ricognizione generale sui movimenti pacifisti che si impegnarono contro la guerra prima della prima guerra mondiale, e dopo il secondo conflitto mondiale. Oggi ci chiediamo: com’è che non ce la facciamo? Come mai, pur avendo alle spalle una cultura pacifista così ampia, siamo ancora a questa incapacità di conciliare i conflitti?


Innanzitutto vanno differenziati pacifismo e nonviolenza, sono due cose diverse. E forse una parte della popolazione ha cercato la pace, mentre una parte molto più piccola è nonviolenta. “Pace” è mancanza di guerra, una specie di patto che fa sì che non ci siano le bombe. Invece, secondo me, la nonviolenza è una scelta, un’attitudine; è generare un altro modo di rapportarsi alle cose e alle persone. La nonviolenza include il pacifismo, cioè è più grande come atteggiamento: include la lotta alla violenza di genere o alla discriminazione razziale. Invece il pacifismo solitamente si occupa di evitare la guerra tra due gruppi tendenzialmente istituzionali e nazionali, quindi coinvolge i governi.
I governi, dal mio punto di vista, sono attualmente delle istituzioni superate, perché, parlando dell’Italia, pur definendoci democrazia e repubblica, di fatto – semplificando molto – potremmo dire che siamo un’oligarchia, perché poche persone votano; molte non hanno diritto di voto – perché gli “stranieri” non ce l’hanno, voi [ragazzi e ragazze minorenni] non ce l’avete, quindi una fetta importante di persone che abita in Italia non ha neanche il diritto di scegliere.
Fra quelli che hanno il diritto poi pochi lo usano, e peraltro non possono neppure scegliere direttamente le persone da eleggere, perché ci vengono proposte e noi possiamo solo indicare una preferenza su una lista decisa dai partiti.
Per costruire la pace ci vorrebbe invece una democrazia partecipativa, dove le persone possono esprimere un proprio punto di vista e insieme si trova la mediazione, che non è un compromesso, non è una rinuncia, ma è trovare la soluzione che insieme rende più plausibile una vita senza bombe.
Recentemente, ad esempio, ho lavorato coi ragazzi usando un format Per una pace costruibile di Marianella Sclavi (amica, maestra, una delle teoriche italiane della gestione creativa dei conflitti) ed è molto ben visibile il fatto che sono due scelte diverse quella della guerra e quella della pace: la guerra è stare dentro la logica della prevaricazione e del gioco a somma zero, che vuol dire io vinco tu perdi, e quindi prima c’è l’escalation delle minacce (“inizio a mandarti una bomba, ti rispondo con le sanzioni, poi le bombe sono due allora, oltre alle sanzioni, ti mando anche le armi”…): questa è l’escalation, si interrompe il dialogo e non si fa altro che arrivare alla distruzione. La guerra finisce solo nel momento in cui c’è l’annientamento dell’altro. Cambiando logica, non vedendo più le cose come giochi a somma zero, ma come win win solution (tutti possono vincere) si fa un altro percorso. Si vanno a vedere e ascoltare veramente le parti per conoscerle: qual è il tuo interesse? Perché vuoi questo? Cosa ti spinge? Quali sono le emozioni, i valori, le strutture identitarie che portano questa posizione mia, tua e che cosa possiamo fare una volta che ci siamo ascoltati in maniera attiva e quindi per comprenderci, non per affermare la nostra posizione? Marianella dice: bisogna assumere che anche l’altro sia intelligente almeno quanto te, cosa che normalmente non c’è quando si arriva allo scontro. Non si ascolta più l’altro per capire le sue ragioni ma gli si urla contro per imporre la propria posizione. L’ascolto attivo permette la comunicazione del riconoscimento e del rispetto, e questo permette di esplorare più soluzioni possibili: non è detto che sia solo a o b, può essere c, d, e, f fino alla z. Le possibilità sono infinite. Una volta che si trova quella possibilità che rende tutti “più soddisfatti possibili”, bisogna però poi impegnarsi per realizzarla. E nel format c’è la scala che scende, che è la guerra, e quella che sale, che è la pace. Quella che scende riflette una inerzia inerzia, quella a cui siamo abituati: è più facile rotolare giù per le scale che salire quattro piani; è molto più faticoso scegliere di costruire la pace. Noi viviamo in una cultura patriarcale, violenta, verticistica, perciò è difficile, bisogna essere coraggiose, continuare giorno a credere e a lottare per la pace. E’ una cosa che chi ci governa non sembra stia facendo né abbia fatto.

…Mentre la prima strategia della guerra è demonizzare e descrivere il nemico come subumano, disumano, qualcuno che per questo non merita di esistere.


Certo, oppure lo si fissa in uno stereotipo: è così e non sarà diverso. E poi c’è il depistaggio: ieri mi sono arrabbiata tantissimo perché radio popolare – che io amo – ha dato le specifiche tecniche delle armi impiegate anziché dirci cosa stava succedendo. Non esiste che una radio indipendente faccia un servizio di questo tipo al radiogiornale. Dobbiamo costruire la pace appunto e non la costruisco se so che si usa l’arma XY. O non costruiamo la pace scegliendo come mediatori dei dittatori, che è quello che sta avvenendo col placet dell’Europa relativamente al ruolo di Erdogan. Poi non scegliamo la pace promettendo l’entrata in Europa. E questo mi ha trovato molto in difficoltà, perché una delle cose che Alexander aveva immediatamente detto era: o allarghiamo l’Unione europea accogliendo questi Stati o la guerra sarà fino all’ultima persona. Ma lì era un allargamento come casa comune: per diluire il conflitto tra due litiganti allargare gli orizzonti è una cosa che si fa. Non mi è sembrato questo l’atteggiamento che si fa spazio in questa circostanza. Non vuol dire che sarei contraria a un ingresso in Europa [dell’Ucraina], però credo che l’obiettivo non sia di costruire la pace, ma di creare blocchi più forti. Alexander è stato il primo a teorizzare il corpo civile di pace europeo, quindi quella forza pacifica di persone, professionisti e non, che erano pacificatori oltre che pacifisti, cioè avevano un ruolo attivo.
Alexander sosteneva che la politica delle sanzioni contro la guerra non funziona, mentre dobbiamo premiare le azioni di pace. La Fondazione Alexander Langer premia persone che col proprio operato costruiscono la pace. Sono atteggiamenti diversi: noi oggi sentiamo parlare dai media e dai nostri rappresentanti di sanzioni e di minacce. E’difficile costruire la pace così: non vengono sostenuti a livello nazionale e internazionale i discorsi di pace. Nessuno Stato ha preso posizione contro le rappresaglie sui manifestanti in Russia.

La nostra generazione è “integrata di fatto”: per noi è stato normale crescere con ragazzi e ragazze di diversa origine e cultura. Sono più le generazioni passate a dover lavorare sul tema della convivenza tra persone di diversa provenienza. Qual è il suo parere e che tipo di lavoro svolge con i docenti in particolare?

La cultura di pace si costruisce nell’educazione. Tu hai detto che siete una generazione integrata, ma vivete in una cultura prevaricante e competitiva, quindi magari effettivamente non vedete il colore della pelle diversa (differenza che la mia generazione sentiva di più), ma c’è una fortissima competitività: l’eccellere vale molto più del collaborare, quindi c’è tanto lavoro da fare per la convivenza. Convivere non vuol dire vivere uno di fianco all’altro senza uccidersi, perché quella è la pacificazione; convivere è il cum-vivere, concorrere anziché competere. E’un cambiare impostazione, modo di vedere le cose. L’altro giorno sono stata al Liceo Tito Livio a parlare, durante la cogestione, di nonviolenza e pace e gli studenti e le studentesse hanno tematizzato molto la competizione che c’è a scuola. Secondo me voi avete un compito più difficile ancora, perché è subdola e radicata la cultura violenta e guerrafondaia. Con gli adulti, secondo me, bisogna fare un lavoro molto grande, perché è vero che per esempio dal 1989 la Convenzione dei diritti dei fanciulli contiene l’articolo 12 che dice: “ognuno ha il diritto di esprimersi, di essere ascoltato, di avere la propria opinione presa in considerazione in tutte le materie e in tutte le faccende che lo riguardano” però qual è il compito degli adulti? Perché sì, una bambina può dire quello che vuole e lo dice la legge, ma chi le insegna che può dirlo se ha davanti adulti che urlano e non ascoltano quello che lei dice o non prendono neanche in considerazione che lei possa avere un’idea, perché è bambina? Si parla di futuri cittadini: quali? torniamo al discorso dell’oligarchia di prima: siete cittadine tanto quanto me, anche se non votate, abitate questa terra tanto quanto me, siete presenti non future. Però per fare questo discorso ci vuole un cambio di paradigma nell’adulto che deve capire da una parte che siete presenti e non persone “da formare” per un futuro chissà quale e che bisogna accompagnarvi nell’esprimere le proprie opinioni. Però quanti adulti conoscete capaci di esprimere la propria opinione o che si prendono il tempo di esprimere la propria opinione? E’molto raro che ci sia un’opinione argomentata in bocca a un adulto: frequente la tifoseria o il pressapochismo: tutti virologi fino a tre giorni fa, adesso tutti massimi esperti di geopolitica.
E’difficile riuscire a trasmettere la cura e l’amore dell’informarsi per formare una propria opinione. Quindi da una parte gli adulti devono imparare a cambiare paradigma – che vuol dire ascoltare le voci bambine – o le vostre. Dall’altra bisogna insegnare agli adulti ad accompagnare la formazione di bambini e studenti. E questo è interessante perché appunto l’articolo 12 è l’unico articolo della convenzione che è diverso tra gli adulti e i bambini; in nessuna costituzione c’è scritto che un adulto o un’adulta ha il diritto di essere ascoltato, mentre l’articolo 12 dice questo. Nelle costituzioni per gli adulti si parla di diritto all’espressione, alla parola, tutto è rivolto all’esterno; mentre per i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, si contrappone al diritto dei bambini e delle bambine il dovere degli adulti di esserci in quanto adulti, quindi accompagnare e non sovrastare, e non forgiare. Però ci vogliono cambi di paradigma e questo fa parte del costruire la pace: ascoltare e dire a voi che avete la voce di dire le cose; e sta a noi creare, fare spazio ed essere l’interlocutore corretto per accompagnarvi nell’essere cittadine attive.


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