Ormai siamo abituati alla loro presenza colorata lungo le strade: cubi rossi, gialli, vedi, rosa trasportati da due ruote, radunati in attesa di fronte a un Mc Donald o a una pizzeria, fermi al citofono di un condominio. Ci portano la pizza, l’hamburger, il riso alla thailandese, il gelato (addirittura!) macinando chilometri in bicicletta, dal ristorante di turno al nostro divano.
Durante il lock down la proporzione enorme che ha assunto il mercato del “food delivery”, cioè la consegna di cibo a domicilio tramite piattaforma digitale, è diventata evidente anche ai più distratti, anche a quelli come me che non si sono mai fatti portare a casa manco una pizza nella vita: c’erano solo loro in giro in quelle buie e spesso ancora fredde notti di confinamento forzato. A pedalare in qualsiasi condizione atmosferica o sanitaria. E lo fanno senza la minima garanzia: non hanno contratto (quindi niente ferie o malattia), non hanno assicurazione (quindi se si fanno male o se la bici si rompe si devono pagare le spese), non hanno orario di inizio e di fine: l’unica certezza che hanno è che devono correre il più possibile perché devono consegnare il più possibile: lo stipendio si forma “accumulando” i due euro che in media prendono a consegna.
La pandemia ha probabilmente dato un’accelerata a un fenomeno che deve il suo successo non soltanto all’efficienza degli algoritmi in una società sempre più tecnologica, ma anche alle condizioni in cui fino a ora sono stati tenuti i riders, i fattorini del 2020, per la maggior parte giovani alla prima esperienza lavorativa dopo la scuola superiore o dopo l’università, che transitano per questa nuova forma di sfruttamento in attesa di un lavoro migliore, ma anche meno giovani, che un lavoro migliore lo hanno perso a causa della crisi.
Sono il simbolo di quel lavoro precario e malpagato che nel nuovo millennio (per chi non ha esperienza di lavoro) rischia di diventare la normalità, se non ci si mette a lottare come fecero i contadini e le contadine, gli operai e le operaie nel secolo scorso per ottenere diritti che adesso sembrano dei privilegi: salario fisso, orario di lavoro, turni programmati in anticipo, copertura sanitaria, condizioni di lavoro dignitose, la maternità, le ferie pagate etc etc.
Fortunatamente qualcosa sta cambiando e proprio grazie alle battaglie dei lavoratori e delle lavoratrici, che rischiano (per esempio, scioperando) di perdere la loro unica fonte di reddito. Dopo anni di lotte e il primo coraggioso sciopero mondiale dei riders dello scorso 26 marzo (svoltosi proprio in Italia), Just Eat, uno dei colossi della “Gig economy” ha raggiunto un accordo con i sindacati e tutti i suoi lavoratori avranno un contratto, ovvero i “privilegi” di cui sopra. Ah la Gig economy è il nome che si è dato al “lavoro a chiamata”.
Quel “contratto ” che stabilisce nuove regole per il datore di lavoro è una conquista importante, che non mette fine alla battaglia perché ci sono da convincere le altre aziende come Deliveroo, Uber Eats, Glovo. Non possiamo lasciare che migliaia di lavoratori obbediscano alla logica dell’algoritmo, né essere noi, dal divano di casa, complici di quel sistema disumano.
Quel “contratto” conquistato è dunque un passaggio storico di giustizia lavorativa che vale per i rider attuali e quelli del futuro. Buon lavoro a tutte e tutti.
Biologa, docente e giornalista collaboratrice del Manifesto, Radio Popolare e altre testate indipendenti. Si occupa di conflitti ambientali e solidarietà internazionale.
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